La "Mafia dei pascoli"


                                  Il Centro Studi “Paolo Giaccone” incontra il

 

     Procuratore presso la Procura della Repubblica di Messina, dott.Maurizio De Lucia 

                                                             ed 

                   Il Sindaco di Troina (EN), dott.Sebastiano Fabio Venezia




Lei è di origine campana, arriva a Palermo nel 1991, subito prima delle stragi. Ricorda – e può descriverci - il clima che si viveva nel “Palazzo” e per le strade in quel periodo?

Procuratore De Lucia: Intanto grazie alla Fondazione Giaccone, per avere chiesto in forma di intervista questo mio contributo, ne sono onorato. Il professore Giaccone è un esempio importante di siciliano e di professionista che non si è piegato alla mafia, peraltro in un momento storico difficilissimo con la mafia nel pieno del suo potere e pagando un prezzo altissimo con la propria vita. Per tutti noi è un dovere rendergli omaggio seguendone l’esempio che era quello di lavorare ciascuno nel proprio campo con scrupolo professionalità e rigore. 

Venendo alla domanda, sono stato, insieme ad altri due colleghi insediatisi con me, il primo uditore giudiziario, termine che si usava allora, ad assumete le funzioni di sostituto Procuratore a Palermo. Mi sono insediato l’11 maggio 1991, solo pochi mesi prima la mafia, sulla veloce Canicattì Agrigento aveva assassinato Rosario Livatino; il 29 agosto, a Palermo uccise Libero Grassi. Ero un giovane magistrato che doveva imparare tutto ricordo soprattutto la grande voglia di fare e di capire, e ricordo la eccezionalità delle professionalità presenti nella procura della Repubblica di allora. Per tutte Paolo Borsellino, procuratore aggiunto solo per pochi mesi, purtroppo. Dopodichè la Palermo di allora era una Palermo in qualche modo consapevole della presenza della mafia, ma anche abituata alla sua presenza. E’con le stragi del’92 che cambia tutto. Quei giorni sono stati terribili, ma hanno anche segnato un cambiamento irreversibile nello spirito con cui si è, di lì in avanti, affrontata la lotta a Cosa nostra. Non potrò mai dimenticare le notti nelle quali, all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo ho vegliato, insieme ad altri colleghi, con la toga indosso, le bare dei caduti e, soprattutto, la fila ininterrotta dei cittadini palermitani che, anche nel cuore di quelle notti, in lacrime e con rabbia venivano a rendere omaggio a Giovanni Falcone, a Paolo Borsellino e a chi era stato ucciso con loro. Penso che da quel dolore e da quella rabbia sia nata una nuova consapevolezza ed una reazione contro Cosa nostra che non si è più interrotta.


La “Mafia” è una (come organizzazione), ma molteplici sono le sue sfaccettature. Quale ritiene essere il miglior mezzo di contrasto, in generale?

Procuratore De Lucia: I livelli del contrasto alla mafia sono molteplici, di carattere culturale ed economico prima di tutto e poi, possiamo dire, tecnico. Contro le mafie si vince se non ci si stanca di studiare, analizzare il fenomeno e fare memoria della sua storia e della storia di chi lo ha combattuto: il profilo culturale. Bisogna pensare allo sviluppo economico di questa fantastica terra, poiché solo la crescita economica aiuta a liberarsi dalle mafie. Lo sviluppo economico vuol dire crescita culturale e di libertà, nemici terribili delle mafie.

Venendo al piano tecnico per così dire, del lavoro di magistrati e poliziotti in questi anni l’azione di contrasto si è sviluppata su quattro pilastri:

·                   la cattura dei capi dell’organizzazione; la prima grande operazione sistematica di contrasto a Cosa nostra è consistita nel catturare i capi dell’organizzazione. Nel 1992 i vertici della commissione, seppure già condannati nell’ambito del c.d. maxi processo, erano ancora per la gran parte liberi e godevano di una latitanza “dorata”. Oggi la situazione è totalmente mutata, uno solo degli esponenti di primo piano della Cosa nostra di allora è latitante. La cattura dei capi ha un significato importante sia dal punto di vista pratico, poiché si tolgono le “intelligenze” dal territorio e gli si impedisce di comandare; sia dal punto di vista simbolico, poiché si colpisce il mito della invulnerabilità e dell’impunità di Cosa nostra.

·                   l’applicazione del regime speciale di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. I grandi capi, una volta catturati, devono essere posti nella condizione di non continuare a comandare dal carcere come avevano fatto in passato. Se pensiamo ai racconti dei collaboratori di giustizia, che dal 1992 in poi hanno consentito di fare luce su migliaia di delitti di mafia, essi hanno anche spiegato quanto sia importante per il capo mafia detenuto continuare ad avere un rapporto diretto e stringente con gli uomini d’onore a lui sottoposti. Questi infatti devono continuare a ricevere ordini (anche di omicidi da compiere) ed a fornire informazioni ai capi detenuti sul corretto andamento delle “cose di mafia” sul territorio, temporaneamente abbandonato da chi è chiuso in carcere. Più collaboratori hanno definito la fase della detenzione in carcere dei loro capi, negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, come un periodo trascorso al “Grand Hotel Ucciardone”, con ciò definendo il più antico carcere di Palermo, anche riferendosi a fatti, se si vuole, di colore ma significativi, come la fornitura, prima al carcere e solo dopo alle cucine dei migliori ristoranti della città, del pesce più fresco pescato nel mare di Palermo in quel tempo.

Dopo le stragi del 1992 questo regime è totalmente mutato e l’esigenza di impedire ai capi della mafia di continuare a governare l’organizzazione dalle celle, ha imposto l’applicazione, prima in via transitoria e poi definitiva, dell’istituto del c.d. regime speciale di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La norma, può dirsi in via di estrema sintesi, è volta ad impedire i contatti dei mafiosi detenuti con i mafiosi liberi, predisponendo apposite strutture carcerarie, limitando i colloqui con l’esterno e sottoponendo i colloqui autorizzati ad un rigoroso regime di controllo. Tali applicazioni hanno senz’altro avuto una rilevante efficacia, poiché, rendendo più difficile la possibilità di contatto, ha allontanato i “cervelli” detenuti, dai mafiosi liberi ed ha pertanto indebolito la capacità di governo delle mafie.

Non possono esservi dubbi che si tratti di un istituto importantissimo tra gli strumenti di contrasto dello Stato alle mafie e come tale da salvaguardare, ma bisogna anche avere ben chiaro che la impossibilità del mafioso di comunicare con i suoi sodali liberi è la sua unica funzione e che il regime speciale di detenzione non può essere inteso, nè funzionare come una sorta di pena aggiuntiva a carattere afflittivo per i condannati per delitti di mafia (e terrorismo). Con ciò intendo dire che se un mafioso ha commesso cento omicidi, perché così gli è stato ordinato, deve essere condannato per quei cento delitti, ma, per quanto feroce egli si sia dimostrato, non è a lui che andrà applicato il regime speciale. Tale regime dovrà invece essere applicato al capomafia (magari un vecchietto apparentemente innocuo) che quei delitti ha ordinato, essendo egli e non il killer la mente che va isolata per proteggere la società ed indebolire la mafia. E’ questa la sola funzione che la norma deve avere ed in tal senso si deve guardare positivamente ad un costante adeguamento del regime, ferma restando la necessità di un suo mantenimento, ai parametri costituzionali ed europei con particolare riferimento all’eliminazione delle restrizioni meramente vessatorie e non strettamente necessarie al raggiungimento degli obiettivi di prevenzione. Lo sforzo odierno sta nel salvaguardare e migliorare il sistema conservandone e rafforzando la sua valenza preventiva ed attenuandone ove possibile quella afflittiva, ma avendo anche cura di non lanciare pericolosi segnali di indebolimento del contrasto alle mafie da parte dello Stato.

·                   la continuità dell’azione investigativa e processuale: accanto all’azione di ricerca dei capi dell’organizzazione, si è, in maniera continua e non episodica, investigato e processato gli autori dei delitti “base” dell’organizzazione mafiosa (in primo luogo le estorsioni). Il carattere continuativo di questa attività ha impedito alla mafia di coltivare una nuova classe dirigente ignota allo Stato, e ha consentito di processare e condannare centinaia di appartenenti all’organizzazione.

·                   l’aggressione ai patrimoni dei mafiosi. Hanno raccontato i collaboratori di giustizia siciliani, ma il discorso vale per tutti i mafiosi, che si diventa mafiosi per due ragioni: l’esercizio del potere; il desiderio di ricchezza. Se la volontà di arricchirsi è uno dei fattori che inducono a divenire mafiosi, l’impoverimento della mafia, attraverso l’aggressione processuale ai patrimoni mafiosi, è, conseguentemente, una scelta razionale dello Stato nella sua azione di contrasto strutturale alle mafie.

Il sistema di attacco alle ricchezze mafiose, negli anni si è affinato attraverso numerosi interventi legislativi e giurisprudenziali, ma almeno tre momenti fondamentali, vanno ricordati.

La legge La Torre del 1982 che per la prima volta ha consentito l’applicazione di misure di prevenzione reale (il sequestro e la confisca) agli indiziati di appartenere alle mafie e che è costata la vita a Pio La Torre, che l’aveva proposta. Le legge di iniziativa popolare del 1996 che ha previsto la destinazione ad uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Il codice antimafia del 2011 che ha istituito L’agenzia Nazionale per i Beni Confiscati. Questi tre strumenti normativi segnano un percorso unico al mondo per quanto riguarda i beni criminali, poiché il sistema italiano è l’unico che non si occupa della sola fase della sottrazione dei beni ai mafiosi, ma si occupa anche della destinazione di quei beni (si potrebbe dire contro i mafiosi) e degli strumenti per gestire i beni (l’Agenzia). Se si pensa che in epoca fascista le misure di prevenzione erano una forma di controllo dei mendicati e dei disoccupati, dei marginali, mentre oggi trovano la loro piena legittimità costituzionale nell’ essere fondamentale strumento di contrasto alle mafie, si può vedere come, anche da questo punto di vista, la democrazia abbia rappresentato il metodo migliore e più importante per il contrasto alle mafie. Lo sforzo odierno sta nel salvaguardare e migliorare il sistema e, ancora una volta non è un problema di leggi, ma di amministrazione. Oggi servono più risorse per il funzionamento dell’Agenzia per i beni confiscati, che deve celermente ricollocarli nel circuito legale e servono più risorse e grandissima trasparenza negli Uffici giudiziari deputati ai processi per la confisca dei beni mafiosi. In nessun caso comunque si può tornare indietro rispetto al punto nel quale si è giunti. «…Cosa più brutta della confisca dei beni non c’è […]. Quindi la cosa migliore è quella di andarsene». Questo pensano i mafiosi dell’aggressione ai loro patrimoni, come dice nel corso di una conversazione telefonica intercettata anni fa, nel corso del procedimento cd. Old Bridge, Francesco Inzerillo esponente della famosa famiglia mafiosa.

Che definizione darebbe di "mafia dei pascoli"? E’ un fenomeno solo siciliano?

Procuratore De Lucia: Direi che l’espressione “mafia dei pascoli” è stereotipata e induce a pensare ad una mafia agreste ed involuta, legata al controllo del bestiame, in una visione ottocentesca dell’organizzazione criminale. Le indagini del mio Ufficio hanno invece individuato una organizzazione mafiosa che, grazie all’apporto di professionisti, dimostra di avere una fisionomia modernissima e dinamica. Muovendo dal controllo dei terreni, caratterizzata da forti legami parentali e omertà diffusa, quindi in continuità con la mafia di sempre (e, quindi, difficilmente permeabili al fenomeno delle collaborazioni con la giustizia). Essa realizza utili, infiltrandosi in settori strategici dell’economia legale, depredandolo di ingentissime risorse, nella studiata consapevolezza che le condotte fraudolente, aventi ad oggetto i contributi comunitari - praticate su larga scala e difficilmente investigabili in modo unitario e sistematico - presentino bassi rischi giudiziari, a fronte di elevatissimi profitti.  
E’proprio l’interesse - perseguito senza alcun contrasto e dunque in completo accordo dalle famiglie mafiose presenti sul territorio - ad ottenere le illecite percezione di ingenti contributi comunitari concessi dall’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Ag.E.A.) è la principale attività rilevante per tutta l’organizzazione mafiosa presente sul territorio.
Si pensi che attualmente è in corso un dibattimento  contro 91 imputati presso il tribunale di Patti nel quale la DDA di Messina sostiene che a partire dal 2013 le famiglie mafiose del territorio hanno percepito illecitamente erogazioni pubbliche per oltre 10 milioni di euro, con il coinvolgimento in tale attività di oltre 150 imprese agricole (società cooperative o ditte individuali), tutte direttamente o indirettamente riconducibili alle due famiglie mafiose, alcune delle quali meramente cartolari ed inesistenti nella realtà.
La percezione fraudolenta delle somme è stata possibile grazie all’apporto compiacente di colletti bianchi identificati dalle indagini: ex collaboratori dell’Ag.E.A., numerosi responsabili dei centri C.A.A.. Soggetti muniti del know how necessario per realizzare l’infiltrazione della criminalità mafiosa nei meccanismi di erogazione di spesa pubblica, e conoscitori dei limiti del sistema dei controlli.
Il meccanismo fraudolento si fonda sulla “spartizione virtuale” del territorio, operata dall’organizzazione mafiosa, ai fini della commissione di un numero elevatissimo di truffe, con rapporti anche con consorterie mafiose operanti in altre province.
Tra gli elementi di novità raccolti dall’indagine emerge in maniera significativa un profilo di carattere internazionale degli illeciti, commessi nell’interesse delle associazioni mafiose. In alcuni casi, infatti, le somme provento delle truffe sono state ricevute dai beneficiari su conti correnti aperti presso istituti di credito attivi all’estero e, poi, fatte rientrare in Italia attraverso complesse e vorticose movimentazioni economiche, finalizzate a fare perdere le tracce del denaro. Mi pare dunque che emerga a proposito della “mafia dei pascoli” una dimensione in realtà modernissima e predatoria dell’organizzazione criminale 

Come si combatte la cd “mafia dei pascoli”?

Procuratore De Lucia: I metodi di contrasto sono sempre gli stessi; professionalità estrema, duro lavoro ricorso a tutti gli strumenti che la legislazione antimafia permette; 

Quale dovrebbe essere la relazione tra società civile ed Istituzioni? Cosa coltivare per il futuro?

Procuratore De Lucia: Il ponte tra società civile ed istituzioni è quello della trasparenza delle decisioni e dell’analisi culturale dei fenomeni. Le istituzioni democratiche vincono sulla mafia a condizione che non chiudano gli occhi e si girino dall’altra parte invece di affrontare e riconoscere il fenomeno. Della mafia si deve parlare, ma lo si deve fare, a qualsiasi livello con rigore scientifico e con spirito civile. Citerò, per concludere, il risultato di una ricerca storica di Salvatore Lupo, pubblicata in un suo saggio del 2008, relativo, tra l’altro, all’esito dei processi scaturiti dalla repressione Mori del 1928. E’opinione comune, che il fascismo operò una dura repressione di quella che oggi alcuni chiamano mafia militare e che poi la mafia sarebbe tornata forte solo nell’immediato dopoguerra. La ricerca di Lupo ci dice invece che - a parte il primo processo che aveva per il regime un valore altamente simbolico - gli altri processi originati dall’operazione di Mori, si conclusero con condanne a pene mediamente dell’ordine di tre anni di reclusione. Il che vuol dire che i mafiosi arrestati nel 1928 erano di nuovo liberi di “mafiare” già nel 1931. Nel 1932, non la c.d. alta mafia, che non fu toccata dal lavoro di Mori, ma la mafia “delle coppole e della lupara” era di nuovo operativa. Questo è stato, secondo l'analisi storica, il prodotto della repressione fascista, cioè di un regime totalitario. Se si guarda a quello che è avvenuto dal 1992 ad oggi; a dove si trovano oggi i capi di Cosa nostra, si può trarre un confortante giudizio su quanto è stata più forte, stabile e seria la risposta della Repubblica democratica alla mafia. Questo è probabilmente il più grande insegnamento che i quasi 30 anni trascorsi dalle stragi del 92 ci hanno lasciato.

 

Nell'agosto del 1982 si consumava l'omicidio Giaccone, Lei era nato da qualche mese. Ha ricordi della sua giovinezza di testimonianze della presenza mafiosa sul suo territorio altrettanto violenti?

Sindaco Venezia: Ho vaghi ricordi di alcuni omicidi nel territorio dei Nebrodi. Mi rimasero impresse le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Nel 1992 avevo appena dieci anni e quelle drammatiche notizie mi scossero molto.

 

Come si combatte la "mafia dei pascoli" (Se ritiene può fare riferimento alla Sua esperienza al Comune di Troina)? 

Sindaco Venezia: E’ opportuno preliminarmente precisare che la cosiddetta “mafia dei pascoli” opera in maniera diversa rispetto alla criminalità organizzata che opera nelle città. Si tratta di una mafia che ha mantenuto le sue radici arcaiche fondate sull’oppressivo controllo del territorio, ma che ha intuito il business dei fondi europei destinati all’agricoltura. Come ho detto altre volte, la “mafia dei pascoli” si combatte con sobrietà e intelligenza. Noi l’abbiamo combattuta non soltanto sul versante della repressione sottraendo i terreni demaniali ai mafiosi. Occorre creare modelli di gestione alternativa in grado di produrre effetti economici positivi sul territorio e soprattutto occupazione. 

L’azienda speciale Silvo-Pastorale del Comune di Troina è ancora oggetto di atti intimidatori? Se si, da dove parte la vostra azione di contrasto?

Sindaco Venezia: Fino a non molto tempo fa abbiamo avuto segnali chiari e inequivocabili che hanno manifestato una certa insofferenza nei confronti del progetto di legalità che stiamo portando avanti e che riguarda la gestione diretta dei terreni sottratti alla mafia attraverso la costituzione di un’azienda agricola pubblica e l’allevamento di razze in via di estinzione. La nostra azione di contrasto è stata chiara: non arretrare nemmeno di un millimetro rispetto alla battaglia per riportare la legalità dei Nebrodi. 

Lei vive sotto tutela, come spiega questa scelta di vita ai suoi figli?

Sindaco Venezia: Ho due figli di cinque e sette anni che ancora non comprendono questa difficile situazione. Spero che quando saranno più grandi possano comprendere che questa scelta difficile sia stata fatta per loro e per i loro coetanei.