La Mafia degli anni '80

                                            Il Centro Studi “Paolo Giaccone” incontra il

 

        Sostituto Procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia, dott.Domenico Gozzo 

 

                                                               La Mafia degli anni ‘80

1. Cosa succedeva negli ambienti mafiosi di Palermo negli anni  ’80? Che clima si viveva?

Con la mia esperienza in Procura Generale a Palermo ho potuto, tra le altre cose, ricostruire quel periodo occupandomi degli eventi di quegli anni. Per esempio, un omicidio di mafia commesso agli inizi degli anni ’80, quello del prof. Bosio, ucciso in maniera barbara come, inutile dirlo, il prof. Giaccone, da Nino Madonia. Quello che emergeva, come del resto è emerso per il caso del prof. Paolo Giaccone, era il pieno controllo della città di Palermo che queste persone avevano. Noi siamo abituati ad un’associazione mafiosa quasi tutta in carcere, perché dopo la fine degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, grazie al lavoro di polizia e magistratura con l’aiuto di professionisti come il prof. Giaccone, si è riusciti a portare in carcere tutti i capi mafia dell’epoca. Ma in quel periodo (inizio anni ’80) erano tutti liberi. Ogni tanto rifletto che persone della pericolosità di Nino Madonia, o dei Marchese (che poi c’entrano con l’omicidio del prof.Giaccone), i Graviano, Greco, tutte queste persone non solo erano persone a piede libero ma frequentavano anche la migliore società palermitana. Quando si parla di “palude” palermitana si fa riferimento a questo: la crème de la crème, persone che erano ai vertici della loro carriera professionale, che frequentavano ambienti dove era possibile, se non scontato, incontrare membri di spicco di Cosa Nostra.

Il prof. Giaccone era anch’egli un professionista all’apice della sua carriera, con infiniti interessi e passioni, ma era certamente una persona ritirata che non frequentava questi ambienti, dove era facilissimo incontrare persone di un certo tipo. Il cd “principe di Villagrazia” era di casa in molti salotti palermitani.

Ecco, questi salotti erano i luoghi in cui potevano avvenire dei cortocircuiti. Dei cortocircuiti che magari potevano portare dei professionisti a chiamare altri professionisti, come il prof. Giaccone o il prof. Bosio, e far chiedere loro di fare o non fare delle cose a vantaggio di certe persone. Queste richieste, che, per il grande senso civico di chi le ricevette vennero disattese ebbero, come sappiamo, delle conseguenze.

Quando io, professionista, vengo nominato con incarico fiduciario da un magistrato, come è avvenuto per il prof. Giaccone, ed ho giurato in nome del Popolo italiano e mi viene chiesto di andare contro quelle che sono le risultanze del mio stesso operato, mi viene chiesto di mettere da parte la mia moralità.

Cosa che non è possibile quando si ha una moralità alta.

Questo però, di contro, vuol dire che forse qualche professionista aveva ceduto a delle richieste, perché altrimenti non si spiega come altri professionisti arrivassero ad essere da tramite per delle richieste che erano in netto conflitto con il dovere di un consulente o di un professionista. Era quindi una società in cui i mafiosi circolavano con una certa libertà ed anzi frequentavano quella parte di società che era al massimo del proprio rango professionale, i circoli più esclusivi di Palermo. E questi mafiosi avevano il potere di chiedere, in maniera diretta o mediata, a questi professionisti qualsiasi cosa potesse far comodo all’organizzazione criminale.

Perché erano abituati a sentirsi dire di sì.

Paolo Giaccone disse di no.

E quindi è un esempio per tutti quelli che sono venuti dopo di lui, è stato un esempio, ed ha pagato purtroppo, forse, proprio perché è stato uno dei primi a fare una cosa del genere.

2.Qual era il ruolo professionale del prof. Giaccone in quel periodo?

Il prof. Giaccone, per quello che ho potuto verificare, era stato nominato perito in tutti i più importanti processi di quel periodo. I più delicati. Gli furono affidate le perizie e le autopsie su alcuni dei casi più delicati di quegli anni, legati alle uccisioni del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, dell’onorevole Michele Reina, del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, del capitano Emanuele Basile, del procuratore Gaetano Costa, del giudice Cesare Terranova, del maresciallo Lenin Mancuso, del giornalista Mario Francese.
Questo perché lui era conosciuto per la sua grande professionalità, eccelso nella sua materia o meglio dire nelle sue materie di competenza, oltre che per la sua dirittura morale, che non era una questione secondaria. Certamente qualcuno avrebbe potuto dire che questa presenza costante lo abbia “sovraesposto” e questo può essere anche vero, ma lo ha sovraesposto – e torniamo al punto di cui sopra – perché a quei tempi non c’era la ressa per fare i consulenti tecnici o i periti del Tribunale. Chi faceva questo lavoro veniva, addirittura, quasi isolato all’interno delle proprie categorie, e guardato con sfavore. Devo dire, purtroppo, che questa cosa continua fino agli inizi degli anni ’90, e l’ho verificato io stesso con i consulenti di mia nomina. Posso solo immaginare cosa volesse dire subire tutto questo agli inizi degli anni ’80 quando il clima era ancora peggiore. Ma, evidentemente, ed è giusto ripeterlo, Paolo Giaccone aveva una dirittura morale che era tale da far sì che tutto questo “contorno” non gli importasse, gli interessava soltanto di essere in pace con la propria coscienza.

3.Sorge spontanea una domanda forse ingenua: se una delle caratteristiche più importanti per un consulente era anche possedere una caratura morale di un certo tipo, un bagaglio etico oltre che professionale, com’era possibile ottenere la collaborazione, che si ritrattassero perizie o comunque soggiacere alle richieste di Cosa Nostra?

Le minacce sono il principale ingrediente. Noi stiamo parlando di un periodo in cui la minaccia era la norma. E si applicava per tutti, magistrati compresi. Un periodo in cui magistrati e consulenti venivano uccisi. Si rischiava in prima persona. Non scordiamoci che ancora agli inizi degli anni ’90 chi si rifiutava di pagare il pizzo veniva ucciso e spesso non era neanche sostenuto dagli stessi negozianti che tramite i loro rappresentanti lo isolavano pubblicamente, dicendo che si stava facendo “una tammuriata”. Tutto questo ci fa capire quanto coraggio sia stato necessario, per Paolo Giaccone, per affrontare tutto questo e portare avanti il proprio lavoro agli inizi egli anni ’80.

4.Tutto questo rende ancora più tragico ed orrido il clima di connivenza di quegli anni, proprio perché i professionisti ben disposti ad assecondare certe richieste avevano certamente ben presente il modus operandi dell’organizzazione mafiosa, percepivano vivide le immagini dei corpi uccisi di chi, invece, non sottostava allo stesso tipo di richieste. Forse è ancora più insopportabile vederlo ora, dopo che tutto è avvenuto

Indubbiamente. Era un periodo in cui le persone si voltavano dall’altra parte. Si perpetravano omicidi, come anche quello di Paolo Giaccone, e nessuno aveva visto niente, nessuno sapeva. E’ stato un periodo da cui è stato possibile uscire solo grazie al coraggio di questi uomini. Noi, a questi uomini, dobbiamo la nostra libertà di oggi. Se oggi a Palermo non c’è più l’ambiente asfissiante che c’era negli anni ’70 e ’80 lo dobbiamo solo a loro, noi “camminiamo sulle loro spalle”.

5.Quali sono state le conseguenze - a livello sociale - dell’omicidio del prof. Giaccone?

Ritengo che tutte queste morti, che volevano produrre la morte della coscienza civile, che volevano produrre disperazione civile ed affermare l’incapacità di andare oltre, non abbiano disseminato croci la Sicilia – come si voleva. Da questi esempi sono nati fiori, alberi che hanno dato frutto e siamo noi che ne stiamo beneficiando. Però è stato un cammino difficile, è stato un cammino dove siamo passati dalla convinzione che tanto “si ammazzavano intra ri iddi” (tra di loro, tra mafiosi), il che magari poteva essere in parte vero prima dell’arrivo dei Corleonesi. Ma dopo l’arrivo dei Corleonesi, gli omicidi “eccellenti” – vedi l’omicidio Scaglione – furono tantissimi. E diventava sempre più difficile giustificare con quella mentalità “vigliacca” gli omicidi, ma c’era ancora chi giustificava questi atti quasi ribaltando la colpa sulle vittime, spesso accusate di essere andate oltre, di non essere rimaste “tranquille”. Questo è il concetto: l’esempio di questi uomini ha reso, a poco a poco, questi discorsi obsoleti ed inaccettabili. Oggi ci può essere solo la vergogna per chi ha pensato o pensa queste cose di una vittima di mafia. Magari ci sarà ancora qualcuno che continua a pensarla così, ma certamente lo fa in modo “riparato” e non plateale come si faceva in quegli anni. Prima addirittura si sosteneva che la Mafia non esistesse… Ripeto, noi camminiamo sulle loro spalle e grazie a loro possiamo fare quello che oggi facciamo, possiamo avere la libertà di oggi.

6.Una riflessione finale: bellissima l’immagine di queste anime come fiori ed alberi rigogliosi, ma oggi, nel 2020, se resta necessario tenere vivo e bene a mente il ricordo dell’operato del prof. Giaccone e, come di lui, di altri, oggi è ancora richiesto a professionisti di andare incontro alla propria morte pur di portare avanti un messaggio? E’ ancora necessario un estremo sacrificio?

Purtroppo ho sentito dire spesso che “la Mafia è finita”, non c’è più pericolo, che chi continua a parlarne è perché ambisce agli onori della cronaca. Questo, purtroppo, non è vero. Lo abbiamo visto qualche anno fa con l’operazione “Cupola 2.0”, Cosa Nostra si era ricostituita e con persone di “primordine” nell’organizzazione, persone pericolose. Se tutti noi ci fermassimo, se si smettesse di operare, la situazione tornerebbe quella degli anni ’70 – ’80, subito! Lo ha detto il Procuratore di Palermo, ed io sono d’accordo, basterebbero due anni. Quindi è ancora necessario l’apporto di tutti noi per evitare che questo possa succedere.

Guardia alta ed antenne drizzate, quindi.

Certamente! Ed io non lo dico per entrare nella polemica sui professionisti dell’antimafia. Io ritengo, come Falcone e Borsellino, che la specializzazione ci vuole, I professionisti dell’antimafia ci vogliono, ci vogliono soggetti che conoscano a fondo il fenomeno mafioso per combatterlo.
Non facciamo di tutta l’erba un fascio, ci sono persone che hanno rischiato e che hanno condotto la propria vita anche con grandi sacrifici personali, e mi sembra ingeneroso associare tutti e metterli in un unico calderone e farli diventare dei “professionisti” dell’antimafia – tra virgolette e con un’accezione negativa.
Il fatto che qualcuno “ci abbia marciato” è certamente un vulnus per tutti noi, per la magistratura, per le altre categorie che sono impegnate nella lotta alla mafia, ma questo non deve farci perdere di vista tutti coloro i quali hanno combattuto in questi anni. Ci sono state le “pecore nere”, ma sono poche ed isolate, non sono tutti.

7.Ecco, forse però per combattere la mafia basta fare “semplicemente” il proprio lavoro, un po’ come il professor Giaccone, avendo la propria bussola morale che punta sempre la stessa direzione.

Certamente questo è quello che diceva anche Paolo Borsellino. Quando le persone mi chiedono: “Ma io cosa posso fare nel mio piccolo?”, anche ragazzi in età scolare, io rispondo: “Fare bene e con coscienza quello che si fa, senza farsi mettere i piedi in testa da nessuno, è l’inizio di tutto. Se tutti riuscissimo a comportarci in questo modo, la mafia non avrebbe spazio. La mafia ha bisogno di persone che si spaventano, che sono disponibili a farsi prevaricare, a non avere una propria dignità. Se tutti noi ci comportiamo con dignità e la mettiamo nel nostro lavoro la mafia non ha spazio.

Mafia, donne e minori.

Il Centro Studi “Paolo Giaccone” incontra il

Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Palermo, dott.ssa Annamaria Picozzi 

                                                                                            Mafia,donne e minori

1.  Che ruolo rivestono le donne nel sodalizio mafioso?

E’ necessario operare una distinzione tra l’attualità ed il passato.
In passato, la struttura della famiglia mafiosa era perfettamente aderente alla struttura  patriarcale, arcaica della società e questo comportava un ruolo ancillare da parte della donna. Questa non era ammessa a partecipare attivamente all'organizzazione, ma aveva comunque un ruolo di sostegno e cura. Veniva definita la “vestale del credo mafioso”, nel senso che il compito era quello di crescere ed educare i figli a prendere il posto del padre, quando fosse arrivato il loro momento. Il suo ruolo la portava ad assistere il latitante, il marito o figlio detenuto, sempre e comunque ad avere cura degli interessi, ma con un ruolo di secondo piano. Possiamo definirla certamente una favoreggiatrice.

Nei primi anni Novanta, con il crescere del numero di operazioni di polizia e della magistratura, che hanno sfoltito notevolmente le fila dell’organizzazione mafiosa sia sotto il profilo della forza militare che degli organici direttivi, la donna ha, con il tempo, modificato il suo ruolo, venendo “impiegata” in modo diverso. Ciò perché si è venuta a creare, anche grazie al grande numero di collaborazioni con la giustizia, una fibrillazione nell'organigramma mafioso tale per cui si è fatto ricorso a soggetti che normalmente non potevano assurgere al ruolo di mafiosi, non potevano far parte dell’organizzazione (minorenni, donne, soggetti che avevano parenti nelle forze del’ordine,etc).
Specifico però che, almeno allo stato, non risulta che vi sia stata una cerimonia di affiliazione formale per una donna all'interno di “Cosa Nostra” palermitana. Ci sono state condanne a carico di donne per concorso esterno ma anche, negli ultimi anni, per 416bis cp ma per soggetti che di fatto rivestivano un ruolo all'interno dell’organizzazione mafiosa, ma mai ritualmente affiliate con la nota cerimonia della “punciuta”.

2.  Non più, quindi, solo “sorelle d’omertà”?

Guardando al passato, i rapporti con l’esterno erano normalmente mantenuti dalle donne, che potevano andare a fare visita ai propri congiunti detenuti senza troppi rischi e così favorivano lo scambio di informazioni che avveniva per mezzo delle stesse donne. Con l’entrata in vigore del regime di detenzione carceraria del 41bis  (cd “Carcere duro”) ed il suo largo ricorso per gli appartenenti all'organizzazione mafiosa con ruoli apicali, si è notevolmente ridotto il flusso di informazioni che il boss poteva far filtrare all'esterno, cosa che in passato gli permetteva di continuare ad esercitare  il suo ruolo di capo. Queste congiunture hanno comportato che la donna non diventasse più e soltanto vettore di informazioni, dal carcere verso l’esterno, ma che avesse anche la possibilità di esercitare un ruolo di supplenza rispetto al marito detenuto. Tutto questo ha messo la donna mafiosa in una condizione di gestione delle ricchezze mafiose e degli affari mafiosi, la donna non era/è più solo esecutrice di ordini, aveva/ha anche un potere decisionale.

3. L’evoluzione del ruolo della donna unito al dato dell’assenza di una cerimonia formale di affiliazione, ma di subentro quasi a supplenza di un congiunto, fa pensare che la donna non possa fare carriera nell'organizzazione senza un legame con un uomo di mafia. Corretto?

Corretto, il mutamento del dna dell’organizzazione mafiosa è decisamente più lento rispetto a quello della società civile. A quanto ci risulta, “Cosa Nostra” non si è spinta fino al punto di emancipare la figura della donna da quella di un congiunto (a qualunque titolo). Resta un’organizzazione androcentrica. Una donna senza “legami” non può emergere e raggiungere i vertici dell’organizzazione.

4.Non vi sono, quindi, “pari opportunità” per le donne nell'organizzazione criminale di stampo mafioso?

No, però abbiamo visto che, ad esempio, mogli o sorelle di esponenti di spicco di “Cosa Nostra” sono riuscite a raggiungere un ruolo apicale grazie alle loro capacità, ma partendo da una certa posizione. Il viatico è stato ed è sempre il cognome o il riferimento ad un componente di spicco, ma quello è il punto di partenza, senza le capacità delle singole donne, queste non sarebbero o non potrebbero mai arrivare a ruoli di rilievo all'interno dell’organizzazione. Esempi noti potrebbero essere Mariangela Di Trapani (moglie di Salvino Madonia) o Giusy Vitale (sorella di Vito e Leonardo e Michele), dotate di grande “carisma”, dimostratesi capaci di gestire il potere e credibili nel farlo all'interno di un contesto quasi esclusivamente maschile.

5.   Il cd “decalogo” dei Lo Piccolo, con riferimento alle donne, è/ è stato osservato?

E’ solo di facciata. Una regola è, per esempio, non tradire la moglie, ma il motto “cherchez la femme” (ndr “segui la donna”) ci ha permesso di trovare molti latitanti legati ad altre donne, che non erano le loro mogli. Diciamo che, per molti appartenenti a “Cosa Nostra”, non vi è corrispondenza nella pratica del decalogo.

6.  Spostiamo il nostro sguardo sul tema minori.

A Palermo vi è stata la prima condanna a carico di un minore per 416bis cp, la condanna a carico di Giovanni Vitale, figlio di Vito e nipote quindi di Giusy, che già a sedici anni è stato condannato dal Tribunale per i Minori di Palermo per la sua appartenenza a “Cosa Nostra”, non per concorso. E qualche altro c’è stato, anche nel resto d’Italia. La guerra dello Stato nei confronti di “Cosa Nostra” ha comportato, come dicevamo, l’impiego di soggetti, da parte dell’organizzazione mafiosa, che normalmente non venivano inseriti nell'organizzazione stessa.

7.            Un sedicenne… vi è un’età “minima” per far parte dell’organizzazione?

No, non si parla di età minima, si parla di “picciotti” che vengono cresciuti ed educati al credo mafioso, ma solo da adulti si ritengono portatori della credibilità per poter stare dentro l’organizzazione ed agire.

8.  Delle tappe da percorrere, un “cursus honorum”?

E’ più un retaggio legato al passato. In genere era il primo omicidio, come reato quasi cerimoniale, che sanciva la “maturità” del soggetto. Ora questo aspetto pare non essere più necessario, il numero dei morti, ridotto rispetto al passato, lo dimostra.

9. Ci sono quindi altri “indicatori” che dimostrano la raggiunta maturità del minore, magari un forte carisma o una spiccata dote “gestionale”.

Certamente, l’essere “figli”. L’essere figlio di un mafioso di spicco è titolo preferenziale per arrivare a certi ruoli. Se per gli altri è necessario “dimostrare” le proprie capacità, per chi viene da una famiglia mafiosa di spicco si presume l’abilità e la capacità, essendo cresciuto in quel contesto.

10.I minori sono “costretti” a seguire le orme dei familiari membri dell’organizzazione mafiosa o sono lasciati liberi?

Lasciati liberi mai. Si deve proseguire il percorso (criminale) intrapreso dai membri della famiglia. Ci si aspetta da loro questo. Per loro pensare ad un futuro diverso vorrebbe dire ripudiare la cultura mafiosa ed è chiaro che in questo c’è bisogno certamente della volontà del singolo, ma anche di aiuto dall'esterno per permettere questo passaggio.

11.       Che peso hanno le donne (in quanto mogli, madri, sorelle, etc) ed i minori (es. figli) nel processo che porta un affiliato a collaborare con la giustizia?

 Determinante. La presenza di una donna, che condivide ed appoggia il percorso della collaborazione, è basilare. Non a caso tutti coloro che pensano di intraprendere il percorso della collaborazione, prima chiedono di poterne parlare con la moglie o con i figli, se già di una certa età. Gli affiliati si vogliono vedere sostenuti dai familiari più stretti, che poi saranno quelli che li seguiranno in questo percorso. Un’opposizione in questo senso complica, se non rende impossibile, la collaborazione e, se non c’è un sostegno, le collaborazioni sono destinate a naufragare nel medio/lungo periodo.Un discorso a parte per i minori, spesso loro, essendo nati e cresciuti in un contesto che aveva conferito “onorabilità” e che li distingue dagli altri, manifestano resistenze, nette opposizioni alla scelta di collaborare con la giustizia. Almeno per quello che abbiamo visto sul campo.

   12. Una riflessione finale: è singolare come, alla fine e giusto quello che abbiamo visto fino ad ora, l’uomo che segna il percorso ed il destino dei congiunti, siano essi moglie o sorella o anche figli, alla fine cerchi il loro supporto per intraprendere un percorso di collaborazione. E’ un bel contrappasso!

Certamente,ma non è insolito: la famiglia è l’unico nucleo che resta con loro. Sanno che perderanno tutto: sostanze, ruolo sociale, dovranno lasciare la loro città e si troveranno in una forzata solitudine. E’ impensabile intraprendere questo percorso senza il sostegno della famiglia.